Avete mai fatto autostop? E sopratutto..avete mai fatto autostop negli Stati Uniti? Questa è stata la mia esperienza negli USA, quando lavoravo nel Yellowstone National Park. Un’esperienza che mi ha cambiato letteralmente la vita.
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Fare l’autostop negli Stati Uniti non è mai stata un’attività che mi avesse mai ispirato. Non volevo essere né una nuova vittima della strada né la nuova protagonista 2013 di “On the road”. Insomma, non avevo nessun tipo d’ispirazione nonostante i miei genitori avessero avuto un passato da autostoppisti (gli anni Settanta, si sa…). E per dirla tutta, sono anche abbastanza introversa quindi l’idea di passare del tempo con degli sconosciuti e doverci necessariamente parlare (perché ti stanno dando un passaggio e quindi, DEVI parlarci, salvo che tu non voglia essere un perfetto maleducato), non m’ispirava nemmeno. Pertanto, quando la mia compagna di stanza taiwanese mi aveva proposto di andare via autostop al Lago, a trenta minuti circa da Canyon Village (dove vivevamo), avevo pensato fosse semplicemente pazza. A essere sincera, non conoscevo nemmeno il verbo inglese e la mia prima risposta era stata “hitch hiking cosa?”.
Il giorno prestabilito all’iniziazione autostoppista era uggioso e prometteva solo pioggia, quindi non era stato un inizio esaltante. Il mio umore non era dei migliori e cercavo di ripetermi come un mantra che stavo facendo la cosa giusta, che non era pericoloso, che sarei tornata a casa sana e salva. Beryl, la mia compagna di stanza (tutti i taiwanesi utilizzavano un nome inglese per farsi riconoscere), era entusiasta, saltellava per l’eccitazione e sembrava una bambina in procinto di fare qualcosa di straordinario. Immagino che a Taiwan sia impossibile fare autostop senza essere presi per pazzi, non saprei. Io in controparte, avevo quel tipo di atteggiamento genitoriale di condiscendenza, della serie “va bene, ti lascio fare come vuoi, tanto non ce la faremo mai ”.
Avete mai atteso che una macchina si fermasse per caricarvi sopra? Vi assicuro che l’attesa sembra interminabile. O almeno, è ciò che avevo pensato in quei lunghi quindici minuti prima che si fermasse la macchina di J., un’anziana dipendente del Parco.
Dopo quell’episodio è stato tutto in discesa: sapevamo cosa fare, cosa dire, come essere convincenti e dopo tre mesi avevamo la stoffa da autostoppisti senior. Il nostro pollice fendeva l’aria con sicurezza, i nostri cartelli rattoppati da scatole di cartone della mensa apparivano ai nostri occhi insegne luminose di Las Vegas e ci potevamo permettere anche di insultare a mezza voce gli automobilisti che non si degnavano di farci salire sulle loro macchine.
In quei tre mesi ho conosciuto decine di persone, imparato a riconoscere stati d’animo diversi e per periodi limitati di tempo, ho attraversato e fatto parte di una vita, una storia, che non era la mia. Ho conosciuto famiglie danesi in viaggio in camper, biondi e sorridenti, donne single in cerca di avventura, coppie lesbiche in vacanza, gruppi di amici pronti per fare campeggio selvaggio in qualche anfratto delle foreste. E molti altri.
Ma di tutte questi incontri, ne voglio raccontare solo tre, che ricorderò per sempre.
BENEDICT E CLAUDIO
Il primo riguarda Benedict e Claudio, due ragazzi tedeschi incontrati nelle prime settimane di lavoro a Yellowstone.
Benedict era un ragazzone biondo, un orso dallo sguardo gentile; Claudio invece era magrolino, indossava una camicia sformata e aveva una folta capigliatura riccia. Insieme stavano girando la costa ovest degli Stati Uniti e Yellowstone era una tappa intermedia nel loro itinerario; avevano acquistato un vecchio furgone Chrysler a Seattle per soli 2000$ e l’avevano riempito con tutto ciò che ritenevano fosse necessario per quel viaggio: un tappeto persiano, cibo in scatola, sedie pieghevoli, una palla da baseball autografata, un frigo bar, e molto altro.
Avevano studiato in un istituto internazionale a Monaco e parlavano un inglese fluente; con loro abbiamo girato per tutta la giornata e mi ha colpito positivamente vedere dei ragazzi così giovani girare da soli con quel furgone per gli Stati Uniti, pronti a stringere rapporti con chiunque, offrendo una generosità senza alcuna pretesa di tornaconto personale.
Prima di lasciarci Claudio mi raccontò dell’esperienza che stavano vivendo con Benedict ma fu un suo commento che mi fece sorridere davvero, perché racchiude uno degli aspetti più importi del viaggio: “Da quando sono qui negli Stati Uniti credo di aver imparato più cose riguardo al mio Paese d’origine che in tutta la mia vita”. Ed è così.
BRIAN
Il secondo incontro fu Brian, di cui purtroppo non possiedo foto. Brian era un ragazzo giovanissimo, 19enne ed era di Chicago. Aveva iniziato una laurea in economia al College da circa un anno ma era in crisi e come altre persone che ho incontrato a Yellowstone, aveva deciso di fare un viaggio in macchina da solo, alla ricerca di se stesso o di un segno che lo aiutasse a comprendere che cosa fare della sua vita. Girava con un’auto mezza scassata, stipata di vestiti e compact disk di hard rock. Quando ci siamo incontrati era in viaggio già da due settimane, non aveva in realtà una meta precisa, penso volesse almeno arrivare sulla costa, forse in California. Aveva un’ingenuità disarmante ma dolce, faceva molte domande sull’Italia e avrebbe voluto trasferirsi in Canada. Con lui andammo a Old Faithful, dove ogni novanta minuti circa, c’è l’eruzione di un geyser enorme; ci offrì una cioccolata calda e osservammo quel getto di acqua bollente sprigionarsi nell’aria in rigoroso silenzio e anche se appartenevamo a mondi diversi, eravamo uniti davanti a quello spettacolo naturale meraviglioso.
GEORGE E BULLET
Infine, il terzo e ultimo incontro che vi voglio raccontare, riguarda George. Era un signore di circa sessanta anni, magrolino e con una giacca di pelle nera. Viaggiava su un Land Rover rosso fuoco insieme al suo cagnolino Bullet (“perché corre come un proiettile, sai?”) ed è stato l’incontro più malinconico che abbia fatto in quei tre mesi.
George viaggiava molto per lavoro ed era costretto ad attraversare vari Stati e il Yellowstone National Park ogni settimana per accettare gli incarichi che gli erano offerti (lavorava per una ditta di costruzione edile); la moglie era malata di cancro da un paio di anni e per pagare l’assicurazione sanitaria era costretto a macinare kilometri su kilometri. Con noi fu molto gentile e continuò per tutto il viaggio a raccomandarsi che stessimo attente, che non salissimo su macchine con uomini soli perché al giorno d’oggi “non si sa mai”. Sembrava un padre. Quando infine arrivammo a destinazione (Firehole, una rientranza naturale di un fiume dove era possibile fare il bagno), sembrava non volerci lasciare andare via.
Fu quel giorno che compresi che l’autostop era come entrare nella vita degli altri, attraversarla e condividerla anche se per pochi minuti. Con tutte le sfaccettature che viviamo ogni giorno, dolci o tristi che siano.